Allenatori e atleti mentalmente vicini

Oggi parliamo del rapporto tra allenatore e atleta. Due protagonisti della scena sportiva che sono continuamente in interazione tra loro. Quando tra allenatore e atleta il rapporto è strutturato sulla trasparenza, su una comunicazione e un confronto continuo, ci sono delle ottime premesse affinchè il lavoro sia proficuo e il perseguimento dell’obiettivo sia un processo condiviso.

Ma di cosa dialogano allenatore e atleta? Di certo di aspetti tecnici, della qualità del gesto motorio e della tattica di gara. C’è però tutta un’altra dimensione che ha a che fare con gli aspetti psicologici dell’atleta, come la motivazione, le tensioni legate alla competizione, le insicurezze e le paure. Tutti elementi che, a mio modo di vedere, gli allenatori non possono trascurare. Con questo non intendo affermare che l’allenatore debba mettersi a fare il mental coach, non è il suo ruolo e forse non ha neppure il tempo e gli strumenti per farlo.

Ma l’allenatore ritengo non possa esimersi dal tener conto della persona che ha di fronte. Gli atleti non sono tutti uguali. Ciascuno ha caratteristiche proprie, risorse e debolezze peculiari. L’allenatore deve poterle conoscere per tarare la propria comunicazione e il proprio stile relazionale con il singolo atleta. Ad esempio, un allenatore che non coglie l’esigenza del proprio atleta di rimanere in silenzio e concentrato prima di una competizione, e tenta di distrarlo pensando di aiutarlo a ridurre l’ansia, è certamente mosso da una buona intenzione ma non sta facendo ciò di cui ha bisogno in quel momento il suo atleta.

Questi tipo di conoscenza e di attenzione, passa attraverso la volontà di dedicare del tempo e dello spazio a creare un territorio condiviso di fiducia entro cui l’atleta sa di poter trovare una figura in grado di accoglierne i bisogni, le eventuali difficoltà e le insicurezze. Se come atleta so che con il mio allenatore posso condividere non solo gli aspetti tecnici ma anche le preoccupazioni che mi affliggono, allora potrò affidarmi completamente a lui e farmi guidare attraverso un percorso di crescita e di maturazione, sia tecnica che personale. Il lavoro stesso dell’allenatore ne beneficerà. E’ molto più facile far accettare ad un atleta un allenamento particolarmente duro o una strategia di gara, se l’atleta in questione ha fiducia, se ha la sensazione che quel particolare tipo di indicazione l’allenatore la sta fornendo sulla base della reale conoscenza che ha di lui e non in maniera standard. In qualche modo l’atleta ha bisogno di sentirsi un po’ speciale per il suo allenatore. Ha bisogno di “sentirsi pensato”, di percepire che l’allenatore lo ha in mente. Sia chiaro, non faccio riferimento a complimenti e riconoscimenti gratuiti. Quanto piuttosto al fatto che un piano di lavoro, una strigliata o un incoraggiamento sono frutto di un ragionamento mirato, del fatto che l’allenatore sa che proprio per quell’atleta, in quel momento, è necessario un certo tipo di intervento.

Lo stesso ragionamento vale nella direzione opposta: anche l’atleta ha il preciso dovere di rendersi disponibili a conoscere il proprio allenatore e a comprendere le motivazioni che lo spingono ad agire in un determinato modo. E’ chiaro come a queste condizioni perseguire gli obiettivi agonistici sia più facile, in quanto atleta e allenatore sono allineati sia su di un piano tecnico che mentale. I non detti, l’estraneità tra persone che pure condividono molto tempo assieme sono spesso la matrice dei più grandi insuccessi, anche quando si ha tra le mani un talento cristallino.

@valentinapenati

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