Ciascun atleta ha le proprie “convinzioni”. Possono essere legate all’attrezzatura, ad esempio, o alla tipologia di allenamento o di alimentazione. In ogni caso si tratta di dimensioni che sono in grado di garantire all’atleta una dimensione di comfort, di farlo sentire a proprio agio. Stiamo parlando di ciò che è noto, conosciuto e sperimentato magari già da anni e a cui l’atleta, a torto o a ragione, fatica a rinunciare. Ciò che conosciamo non fa paura, ciò che non conosciamo ci spaventa. L’ignoto è sempre qualcosa da cui tendiamo a tenerci alla larga perché fa scattare quelle domande del tipo “E se poi peggioro la mia situazione?”, “Se poi mi pento?”. Se da un lato è legittimo che un atleta non abbandoni la vecchia strada e ciò che per lui ha sempre funzionato, lo stesso discorso non dovrebbe valere per quelle situazioni in cui gli atleti si rendono conto che le cose non stanno girando per il verso giusto o che potrebbero sollevare l’asticella nella direzione di un possibile miglioramento. Eppure, in questi casi, gran parte degli atleti non cambia, non sperimenta neppure in condizione di allenamento e, a priori, non si concede la possibilità di valutare l’esistenza di qualcosa a lui/lei più congeniale. Provare una nuova marca di sci o tentare un nuovo piano di allenamento in bici sono pensieri da cui l’atleta si tiene ben lontano. E se questo accade, si troveranno mille difetti alla nuova condizione, senza darsi il tempo di conoscerla realmente e rifuggendo immediatamente da essa, etichettandola come “una cosa che non fa per me”.

Questo avviene perché qualsiasi sperimentazione richiede di uscire dalla propria zona di comfort e di rinunciare a degli automatismi sia comportamentali che mentali ormai consolidati, che in qualche modo fanno stare tranquilli e ci permettono di inserire il pilota automatico senza richiederci eccessivo impegno. Non solo. Emotivamente rimanere in ciò che è noto evita di doversi assumere delle responsabilità, di mettersi in discussione e di vedere fin dove ci si può spingere. Va però detto che le zone di comfort, pur garantendo una condizione di agio, spesso limitano il progresso.

Concedersi dunque la possibilità di cambiare e sperimentare è come aprire una finestra su nuove opportunità. L’atteggiamento necessario per farlo deve però essere quello della curiosità, non della paura. La paura è proprio ciò che rende così indigesto uscire dalla propria zona di comfort e che spesso inchioda in una condizione accettabile ma non pienamente soddisfacente. La curiosità, viceversa, permette di conoscere e di mettere sul tavolo le diverse possibilità in gioco, per poter successivamente scegliere con consapevolezza se la zona di comfort merita ancora di essere abitata oppure se al di là di quel confine abbiamo scoperto nuove possibilità in grado di far crescere e migliorare. In definitiva, uscire dalla zona di comfort non è necessario, ma può rivelarsi molto utile.

Per Solowattaggio, Valentina Penati

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